16:53 Giorno 6, COP26 DAY BY DAY – Lettere da Glasgow
Riforestazione sì, ma senza trucchi: è battaglia alla Cop
di Antonio Cianciullo
L’altra Cop è qua, sotto la pioggia. In 200 mila, secondo le stime degli organizzatori, si sono presi le strade di Glasgow per dire che il tempo giusto per agire era ieri. Oggi siamo in ritardo. Domani sarà troppo tardi. Una manifestazione che ha visto confluire i movimenti ambientalisti, quelli dei giovani, quelli del femminismo, quelli delle popolazioni indigene. Un’irruzione dei colori della vita in una trattativa difficile, spesso astratta e tecnica.
Ieri non solo a Glasgow, ma a Sydney a Parigi, a Londra, a Città del Messico, a Nairobi, a Seul e in altre città in tutti i continenti sono stati organizzati eventi per chiedere giustizia climatica. E’ la voce di chi vuole difendere il suo futuro e vuole coerenza tra parole e fatti.
Ma dall’altra parte della barricata, nello Scottish Event Campus dove sono riuniti i delegati di più di 190 Paesi, già la coerenza nelle parole è stata una conquista faticosa. Nel lungo processo negoziale iniziato nel 1992 all’Earth Summit di Rio de Janeiro per due volte gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro cambiando opinione scientifica assieme al presidente. Adesso nessuna delegazione, nessun capo di governo se le sente di dire davanti al mondo che il futuro sono i combustibili fossili. Perfino Jaire Bolsonaro, il presidente brasiliano che ha negato il rischio covid e quello del saccheggio dell’Amazzonia, ha firmato il patto contro la deforestazione (forse perché lo stop è solo al 2030).
Dunque le parole ora ci sono. Sono il “codice rosso” evocato dal segretario delle Nazioni Unite per indicare il rischio prodotto dalla crisi climatica. Gli atti però tardano al di là della difficoltà del fare i conti con la complessità di un salto produttivo e di stile di vita epocale. Agire subito non può significare cancellare dall’oggi al domani il sistema che ruota attorno ai combustibili fossili. Ma pianificarne la sostituzione in tempi compatibili con la tenuta degli ecosistemi sì: questa è la vera posta in gioco a Glasgow. Non un finale in bianco o nero, successo o sconfitta della Cop, ma una reale accelerazione in direzione del cambiamento che non potrà avvenire che Paese per Paese, nel confronto tra opinione pubblica e governi. Ci si riuscirà?
Un assaggio delle difficoltà da superare è venuto dalla giornata di ieri, dedicata alla Natura. Potrebbe sembrare un argomento poco diviso. In realtà appena si trasforma in un concreto oggetto di indagine i conflitti si moltiplicano. Ad esempio l’agricoltura, assieme alle foreste e all’uso dei suoli, fa parte di un settore responsabile di circa un quarto delle emissioni serra totali: eppure le misure di sostegno dell’agroecologia – cioè delle tecniche che trattengono il carbonio nel suolo – sono assai scarse.
Ieri 45 governi, è stato annunciato alla Cop26, si sono impegnati a investire complessivamente 4 miliardi di dollari in azioni per proteggere la natura e passare a sistemi agricoli più sostenibili. Questi fondi serviranno a sostenere investimenti pubblici per l’innovazione agricola, per lo sviluppo di sementi resistenti al cambiamento climatico e per soluzioni per migliorare la salute del suolo. Sedici Paesi hanno lanciato una Policy Action Agenda e più di 160 soggetti hanno aderito a una Global Agenda for Innovation in Agriculture.
Ma secondo Slow Food, che ha seguito i lavori della due giorni dedicata alla natura e all’uso del suolo, “la Cop26 non ha centrato un approccio corretto sulla produzione agricola: parlare di agricoltura sostenibile senza considerare l’intero sistema alimentare non permette infatti di avere una visione complessiva e veritiera sui problemi. Le proposte emerse sembrerebbero andare in due direzioni diverse presentate come complementari: da un lato la riforestazione e dall’altro le nuove tecnologie in agricoltura. In realtà a essere riproposto è un vecchio modello, secondo il quale il cibo è considerato come un insieme di merci prodotte su larga scala, con monocolture assistite da tecnologie futuristiche che non faranno altro che far dipendere i contadini sempre di più dalle multinazionali e dai loro brevetti”.
Anche la riforestazione infatti può diventare un punto critico se il tema della compensazione delle emissioni non viene gestito con correttezza. Il problema centrale è la mancanza di standard e di regole trasparenti. Piantare alberi è senza dubbio una buona azione ambientale. Purché questi alberi non vengano tagliati o bruciati dopo un paio di anni.
“Fare seriamente un’operazione di riforestazione vuol dire curare le piantine e garantire la loro crescita per almeno 30 anni”, spiega Andrea Barbabella, coordinatore di Italy for Climate. “Un’operazione che difficilmente può avere un costo inferiore ad alcune decine di euro per tonnellata di CO2 assorbita. Oggi ci sono organizzazioni che vendono crediti di compensazione forestale per le emissioni di CO2 a pochi euro a tonnellata. Questo è possibile perché si usano alcuni escamotages”.
Due gli esempi citati. Il primo consiste nel conteggiare in un unico anno, quello della piantumazione, tutta l’anidride carbonica catturata da un albero durante una crescita di mezzo secolo. Il secondo nel circondare con un recinto un bosco sostenendo che quel bosco è diventato protetto, dunque non è stato abbattuto, dunque tutto il carbonio che contiene può essere conteggiato come compensazione per le emissioni di un’azienda o di un Paese.